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La tutela del consumatore nel diritto alimentare

L’etichettatura

di Valentina Maglio

Introduzione

Nell’ambito della tutela del consumatore assume un ruolo fondamentale l’esigenza di una corretta informazione. A questa esigenza fanno fronte, nel diritto alimentare, le norme sulla presentazione ed etichettatura dei prodotti alimentari. L’etichetta dei prodotti alimentati contiene infatti tutte quelle informazioni sulle caratteristiche del prodotto, che consentono al consumatore una scelta consapevole al momento dell’acquisto. La disciplina sull’etichettatura dei prodotti alimentari preconfezionati, vale a dire quelli di produzione "industriale", è contenuta nel decreto legislativo n. 109 del 1992. Questo decreto legislativo è frutto dell’attuazione di numerose direttive comunitarie: a partire dal 1978 il legislatore europeo ha, infatti, dato inizio ad un’opera di armonizzazione delle discipline nazionali in materia di etichettatura e presentazione dei prodotti alimentari, da un lato per prevedere una tutela uniforme dei consumatori, dall’altro per facilitare gli scambi infracomunitari.

In base a quanto prevede il decreto legislativo n. 109 del 1992 devono essere necessariamente indicati sull’etichetta del prodotto:

- la "denominazione di vendita",

- l’elenco degli ingredienti,

- la quantità,

- il termine minimo di conservazione,

- la ragione sociale e la sede del produttore,

- la sede dello stabilito in cui il prodotto è stato fabbricato, nonché il lotto di produzione,

- le modalità di conservazione o uso, se necessario per le caratteristiche del prodotto.

Nel prosieguo verranno analizzati i principali requisiti di etichettatura.

 

La "denominazione di vendita"

La "denominazione di vendita" è una sorta di descrizione del prodotto alimentare, del suo genere e delle sue principali caratteristiche: la sua indicazione sull’etichetta del prodotto alimentare è fondamentale poiché non sarebbe sufficiente il marchio, per quanto noto, ad indicare al consumatore le caratteristiche del prodotto che sta per acquistare. La "denominazione di vendita" può essere determinata da una norma comunitaria (questo è ad esempio il caso del cioccolato, disciplinato da apposite direttive), da una norma italiana (così, ad esempio, il DPR n. 470 del 1973 definisce le caratteristiche del caffè oppure la legge n. 580 del 1967 determina le caratteristiche della pasta e del pane), oppure dagli usi. Ad una prima analisi potrebbe sembrare che la determinazione della "denominazione di vendita" di un certo prodotto non sia particolarmente problematica, poiché si tratta, sostanzialmente, di una semplice descrizione del prodotto. In realtà, in materia di "denominazione di vendita" è fiorita una copiosa giurisprudenza della Corte di Giustizia delle Comunità Europee: nei diversi Stati membri dell’Unione europea possono corrispondere ad una certa "denominazione di vendita" prodotti con caratteristiche differenti, poiché sono espressione di usi e tradizioni alimentari diversi. Dal momento che, però, i prodotti devono poter essere venduti nei vari mercati diventa essenziale coniugare le esigenze di tutela del consumatore ad ottenere una corretta informazione sul prodotto che sta per acquistare, con il principio della libera circolazione delle merci. Il primo caso in cui la Corte di Giustizia delle Comunità Europee si è trovata a decidere sui potenziali conflitti fra tutela del consumatore e principio della libera circolazione delle merci è un caso del 1979, noto come Cassis de Dijon (Corte CE, 20 febbraio 1979, C-120/78, REWE-Zentral AG c. Bundesmonopolverwaltung für Branntwein, in Raccolta, 1979, p. 648): la Creme de Cassis de Dijon è un liquore francese con una gradazione alcolica tra i 15° e i 20°, le autorità tedesche responsabili dell’importazione dei prodotti alcolici ne avevano però vietato l’importazione dal momento che, ai sensi della normativa tedesca all’epoca vigente, poteva considerarsi liquore, ed essere posto in vendita con tale denominazione, solamente quella bevanda alcolica che avesse una gradazione pari almeno a 32°. Le autorità tedesche avevano motivato il divieto all’importazione del liquore francese anche sulla base della tutela del consumatore tedesco che, essendo abituato a considerare liquori bevande con una certa gradazione alcolica, avrebbe potuto essere tratto in inganno da bevande con caratteristiche diverse. Questa decisione si poneva però in conflitto con uno dei principi fondamentali del diritto comunitario, vale a dire il principio della libera circolazione delle merci che, per favorire lo scambio fra gli Stati europei, vieta le restrizioni all’importazione e anche quelle misure poste in essere da un certo Stato che risultino avere un effetto equivalente: nel caso del Cassis de Dijon veniva infatti utilizzato il riferimento ad una normativa nazionale sulle caratteristiche tecniche di un prodotto alimentare per vietare, di fatto, l’importazione di un prodotto legalmente fabbricato e posto in vendita in un altro Stato membro. La decisione della Corte di Giustizia ha fatto prevalere il principio della libera circolazione delle merci sulle esigenze di tutela del consumatore tedesco, poste in evidenza dalle autorità tedesche, stabilendo la contrarietà della norma tedesca sulle bevande alcoliche ai principi del diritto comunitario. E’ però essenziale notare come la Corte abbia motivato la propria decisione, segnalando che il consumatore tedesco avrebbe potuto essere adeguatamente tutelato dalle indicazioni riportate sull’etichetta del prodotto: dalla lettura dell’indicazione della gradazione alcolica (che è appunto uno dei requisiti essenziali di etichettatura) il consumatore avrebbe ricevuto tutte le informazioni necessarie a chiarire la differenza esistente fra il liquore francese e i liquori nazionali e non sarebbe, quindi, stato tratto in inganno dall’uso della "denominazione di vendita" "liquore" per un prodotto con caratteristiche differenti da quelli fino ad allora esistenti sul mercato.

A questo ruolo fondamentale dell’etichettatura la Corte di Giustizia si è richiamata più volte in casi analoghi a quello appena citato, nei quali si ponevano in conflitto il principio della libera circolazione delle merci e la tutela del consumatore. I casi più noti riguardano la birra tedesca e la pasta italiana: il fatto che si tratti di due prodotti tipici per i rispettivi paesi d’origine non è casuale, nascendo infatti questo tipo di conflitti proprio dall’esistenza di tradizioni alimentari differenti. Nel caso della birra tedesca (Corte CE, 12 marzo 1987, C-178/84, Commissione CE c. Repubblica Federale di Germania, in Raccolta, 1987, p. 1262), la Corte si è trovata a decidere se la legge tedesca sulla birra che imponeva l’uso di determinati ingredienti per la produzione della birra (quali malto d’orzo, luppolo, lievito e acqua) ed escludeva l’uso di additivi ma anche di altri ingredienti (come mais, sorgo e riso) utilizzati nella produzione della birra in altri paesi, poteva essere considerata come una misura equivalente ad una restrizione all’importazione, poiché non ammetteva che birre legittimamente prodotte in altri Stati membri potessero essere poste in vendita con la denominazione "birra" in Germania.

Del tutto analogo era il caso della pasta italiana (Corte CE, 14 luglio 1988, C- 407/85, Drei Glocken G.m.b.H. e Kritzinger c. USL Centro-Sud e provincia autonoma di Bolzano, e Corte CE, 14 luglio 1988, C-90/86, Zoni, in Raccolta, 1988, p. 4300): è noto che la pasta in Italia può essere prodotta esclusivamente con semola di grano duro, mentre in altri Stati è possibile produrre pasta con grano tenero. La norma italiana che vietava la vendita in Italia della pasta di grano tenero poteva, esattamente come la legge tedesca sulla birra, costituire di fatto una restrizione all’importazione di prodotti legittimamente fabbricati e posti in vendita in altri Stati dell’Unione europea.

Applicando il principio statuito nel caso Cassis de Dijon, la Corte di Giustizia ha in entrambi i casi sanzionato la contrarietà delle norme nazionali al principio comunitario della libera circolazione delle merci. Da allora in Germania vengono vendute, con la denominazione "birra", birre prodotte in altri Stati europei con ingredienti differenti da quelli ammessi dalla tradizione tedesca, così come in Italia vengono vendute paste di grano tenero, poiché in entrambi i casi si tratta di prodotti legittimamente fabbricati e posti in vendita in altri paesi dell’Unione europea. Anche in queste occasioni la Corte di Giustizia ha sottolineato come il consumatore nazionale, abituato tradizionalmente ad una certa "ricetta" del prodotto, possa essere sufficientemente informato delle indicazioni riportate in etichetta, poiché l’elenco degli ingredienti gli permette di comprendere le differenze esistenti fra il prodotto di importazione e il prodotto nazionale, anche se posti in vendita con la medesima denominazione. Da quanto sopra riportato potrebbe sembrare, soprattutto riflettendo su un prodotto nazionale come la pasta, che la tutela del consumatore abbia ceduto il passo alle esigenze dello scambio infracomunitario. Questa impressione non è però corretta, perché la Corte di Giustizia ha saputo far prevalere le esigenze di tutela del consumatore quando le caratteristiche del prodotto posto in vendita con una certa denominazione erano così differenti da quelle del prodotto normalmente associato a tale denominazione, che il consumatore avrebbe potuto essere tratto in inganno, nonostante le indicazioni già riportate sull’etichetta del prodotto. Ciò è avvenuto in un caso relativo ad uno yogurt surgelato e in altro caso relativo alla vendita di un formaggio dietetico in cui erano completamente assenti grassi di origine animale. Il primo caso riguardava la commercializzazione sul mercato francese, con la "denominazione di vendita" "yogurt surgelato", di uno yogurt sottoposto ad un particolare procedimento di surgelazione, che veniva legalmente prodotto e posto in vendita nei Paesi Bassi (Corte CE, 14 luglio 1988, causa C-298/87, Smanor SA, in Raccolta, 1988, p. 4507). Poiché la normativa francese riservava la denominazione yogurt ai soli prodotti freschi, caratterizzati dalla presenza di bacilli vivi (quasi completamente assenti, invece, in un prodotto surgelato), le autorità francesi avevano proposto l’uso di una differente denominazione per il prodotto, quale "latte fermentato surgelato", sostenendo che altrimenti il consumatore francese, che alla denominazione yogurt associa la presenza di bacilli vivi, avrebbe potuto cadere in errore sull’effettiva natura del prodotto. La Corte di Giustizia ha riconosciuto l’esistenza di questo rischio e, soprattutto, la possibilità che le indicazioni riportate in etichetta in questo caso particolare non siano sufficienti a fornire al consumatore le informazioni necessarie per effettuare un acquisto consapevole. Per questo motivo ha incaricato il giudice nazionale di verificare se lo yogurt surgelato presenti caratteristiche organolettiche così diverse da quelle dello yogurt fresco, da dover essere considerato un prodotto sostanzialmente diverso, nonché di verificare quali siano le normali aspettative di un consumatore francese di fronte ad un prodotto denominato yogurt (soprattutto in relazione al carattere di prodotto fresco, contenente bacilli vivi), ammettendo così implicitamente che, se tali condizioni sono soddisfatte, la denominazione "yogurt surgelato" potrebbe essere vietata e sostituita dalla denominazione "latte fermentato surgelato", proposta dalle autorità francesi.

Analoga è stata la decisione della Corte di Giustizia nel caso del formaggio dietetico senza grassi animali (Corte CE, 16 dicembre 1999, C-101/98, Union Deutsche Lebensmittelwerke GmbH c. Schutzverband gegen Unwesen in der Wirtschaft e.V., in Dir. com. scambi intern., 2000, p. 539): il caso riguardava due diversi prodotti destinati ad essere posti in vendita sul mercato tedesco con le denominazioni "formaggio dietetico a pasta molle contenente olio vegetale" e "formaggio dietetico all’olio vegetale per un’alimentazione a base di materie grasse di sostituzione"; in entrambi i prodotti la materia grassa derivante dal latte era stata completamente sostituita da materia grassa di origine vegetale. La Corte ha vietato l’uso della "denominazione di vendita" "formaggio" per questi particolari prodotti, benché fossero accompagnati da indicazioni ulteriori relative al fatto che si trattava di prodotti contenenti acidi polinsaturi, adatti a diete povere di colesterolo. L’uso di una denominazione come "formaggio" a cui, non solo il diritto comunitario ma anche la generalità dei consumatori collegano la provenienza dalla trasformazione del latte e soprattutto dei grassi da questo derivati, avrebbe potuto risultare ingannevole, poiché non chiariva l’effettiva natura del prodotto agli occhi del consumatore.

La "denominazione d’origine"

Dalla "denominazione di vendita" dei prodotti alimentari vanno distinte le denominazioni "d’origine", istituite in sede comunitaria al fine di tutelare alcune produzione tipiche e tradizionali e, al tempo stesso, di tutelare la produzione agricola. Si tratta di tre diverse denominazioni: la denominazione d’origine protetta (DOP), l’indicazione geografica protetta (IGT), e l’attestazione di specificità (specialità tradizionale garantita, STG), che vengono concesse a prodotti tipici e tradizionali, prodotti secondo determinati disciplinari di produzione. Tali denominazioni possono coincidere con la "denominazione di vendita", solo quando si pone in vendita il prodotto oggetto di questa particolare forma di tutela (es.: Prosciutto di Parma DOP), altrimenti potranno essere utilizzate per indicare un certo ingrediente presente nel prodotto (es.: cioccolato alle nocciole Piemonte DOP).

Tra le tipologie di "denominazione d’origine" sussistono le seguenti differenze: le prime due denominazioni riguardano prodotti tipici, tradizionalmente legati ad un certo territorio (nel caso delle DOP per ogni fase produttiva dalla materia prima al prodotto finito, nel caso dell’IGP è sufficiente che una delle fasi di produzione sia tradizionalmente legata ad un certo territorio); l’attestazione di specificità intende, invece, proteggere una ricetta tradizionale, indipendentemente dal luogo di produzione (può essere richiesta per prodotti agricoli o alimentari derivanti da materie prime tradizionali o che hanno subito un metodo di produzione e/o di trasformazione tradizionale).

Queste denominazioni possono essere conferite solo in seguito ad uno specifico procedimento di autorizzazione: i produttori interessati ad ottenerla devono proporre domanda, allegando il relativo disciplinare di produzione, alle autorità comunitarie. La domanda sarà poi resa nota a tutti gli Stati membri, che hanno la possibilità di intervenire nel procedimento di autorizzazione segnalando, ad esempio, la loro opposizione nel caso in cui si contesti il legame di una certo prodotto ad una certa regione. La Commissione concede l’iscrizione nell’apposito registro se ritiene che il prodotto per il quale è stata richiesta la tutela abbia le caratteristiche di tradizione e originalità richieste. Una volta iscritta nell’albo, la denominazione è tutelata e potrà essere utilizzata solo per i prodotti che presentano le caratteristiche elencate nel disciplinare di produzione e sono certificati da un ente terzo, che ha funzione di controllo.

 

Gli ingredienti

Se la "denominazione di vendita" fornisce una prima indicazione fondamentale per consentire un acquisto consapevole al consumatore, l’elenco degli ingredienti, che vanno indicati in ordine decrescente in base al loro peso al momento dell’utilizzazione, fornisce le informazioni necessarie per conoscere a fondo la composizione del prodotto alimentare. L’esigenza di fornire informazioni corrette al consumatore è cresciuta nel tempo ed ha avuto riflessi anche nella disciplina relativa all’indicazione degli ingredienti.

Esemplare a questo proposito è l’importanza che ha assunto l’ingrediente caratterizzante di un certo prodotto, vale a dire quell’ingrediente che viene associato abitualmente ad un certo prodotto alimentare oppure cui si fa espresso riferimento nella "denominazione di vendita" del prodotto (ad esempio: yogurt alla frutta, biscotti alla crema). Fino al 2000, quanto è stata attuata nel nostro ordinamento la direttiva 97/4/CE l’indicazione della quantità (espressa in percentuale) di un ingrediente caratterizzante di un certo prodotto alimentare era del tutto facoltativa: era quindi il produttore che poteva scegliere di indicare, ad esempio, la percentuale di frutta presente nel proprio yogurt per sottolinearne la migliore qualità, rispetto ad altri prodotti analoghi in cui la frutta poteva essere presente in quantità minore. La direttiva 97/4/CE ha reso però obbligatoria l’indicazione della quantità dell’ingrediente caratterizzante, al fine di fornire maggiori informazioni al consumatore che gli consentano di effettuare un confronto preciso ed oggettivo fra i diversi prodotti, anche sulla base delle caratteristiche intrinseche. Ora è quindi necessario indicare la quantità, in percentuale (calcolata al momento della sua utilizzazione per la preparazione del prodotto), di quegli ingredienti che figurino nella "denominazione di vendita" del prodotto (es.: biscotti alla crema), che vengano generalmente associati dal consumatore ad una certa "denominazione di vendita", che vengano posti in rilievo sull’etichetta del prodotto con immagini o parole (es.: sulla confezione di un sugo pronto è riportata l’immagine di un certo ortaggio), e, infine, che siano essenziali per caratterizzare un prodotto alimentare e per distinguerlo dagli altri prodotti con cui potrebbe essere confuso. Scopo di questa nuova disciplina è quello di garantire una maggiore informazione al consumatore, dal momento che l’indicazione precisa della quantità di un ingrediente ritenuto essenziale permette un confronto oggettivo fra prodotti appartenenti alla medesima categoria.

 

Gli ingredienti derivanti da organismi geneticamente modificati

Un’attenzione particolare meritano in questo contesto gli ingredienti derivanti da organismi geneticamente modificati (OGM) e i relativi requisiti di etichettatura, poiché costituiscono un buon esempio di come il legislatore abbia dovuto adattarsi alle nuove esigenze dei consumatori, che nel corso del tempo hanno manifestato un sempre maggiore sospetto e timore nei confronti degli OGM e di conseguenza una volontà precisa ad ottenere informazioni in proposito. La prima direttiva comunitaria in materia di OGM risale al 1990: si trattava di una norma che definiva soprattutto il procedimento di autorizzazione per l’emissione nell’ambiente di OGM e per la loro immissione sul mercato (anche per la coltivazione sperimentale di OGM è infatti necessaria un’autorizzazione specifica che viene rilasciata solo dopo un’attenta valutazione dei possibili rischi). In tale prima direttiva non veniva previsto alcun requisito di etichettatura supplementare per i prodotti alimentari che contenessero OGM.

 

Solo qualche anno dopo, nel 1997, il legislatore comunitario, in seguito alla sensibilizzazione sull’argomento dell’opinione pubblica, è intervenuto imponendo requisiti di etichettatura supplementari per ingredienti derivanti da OGM, nel caso in cui si trattasse di ingredienti non equivalenti a quelli convenzionali e, quindi, fosse necessario evidenziare quelle caratteristiche che potevano avere ripercussioni sulla salute dei consumatori (si pensi al rischio di allergie) oppure creare preoccupazioni di ordine etico (si pensi alle restrizioni alimentari prescritte da alcune religioni). Di fronte ad un sempre crescente interesse dell’opinione pubblica sull’argomento, il legislatore nel 1998 è intervenuto imponendo l’indicazione sull’etichetta della presenza di mais e soia geneticamente modificati (dal momento che si tratta delle tipologie di OGM autorizzate all’interno dell’Unione Europea), indipendentemente dalla loro equivalenza ai prodotti convenzionali e poi ampliando, nel 2000, l’obbligo di etichettatura anche agli aromi e agli additivi (tra questi rilevano soprattutto l’amido di mais e la lecitina di soia, che vengono utilizzati nella produzione di numerosi alimenti). Le crescenti preoccupazioni dei consumatori hanno portato il legislatore comunitario ad introdurre nel tempo un generale obbligo di indicazione della presenza di ingredienti derivanti da OGM sull’etichetta del prodotto alimentare. Questo principio è però soggetto a due importanti eccezioni: innanzi tutto non

è necessario indicare in etichetta la presenza di ingredienti derivanti da OGM se tali ingredienti non presentino né DNA né proteine derivanti da modificazioni genetiche, perché eliminate nel corso della lavorazione del prodotto; in secondo luogo nel caso in cui la presenza di OGM sia del tutto accidentale e sia inferiore all’1% dell’ingrediente. Benché tali previsioni, in particolare la previsione della soglia dell’1% per la presenza accidentale di OGM siano comprensibili in particolare per gli oggettivi rischi di "contaminazione" fra prodotti convenzionali e geneticamente modificati nel caso di materia prime quali mais e soia, non può non essere rilevato che il principio dell’informazione e della trasparenza per il consumatore non è in questo caso del tutto attuato.

 

L’indicazione della quantità

Un ultimo cenno può essere fatto all’indicazione della quantità nei prodotti preconfezionati, che rientra nel novero delle indicazioni da riportare obbligatoriamente in etichetta. Con questa indicazione il consumatore ha la possibilità di effettuare un migliore confronto fra i differenti prodotti, anche dal punto di vista del loro prezzo e non solo delle loro caratteristiche. In passato questa esigenza è stata tutelata imponendo, per alcuni prodotti di base (come caffè, zucchero, farina, riso) gamme obbligatorie di quantità: la ratio di tale normativa era quella di permettere un confronto immediato del prezzo dei prodotti, poiché il consumatore si trovava a confrontare confezioni del medesimo tipo. Questi regimi vincolistici sono da qualche tempo oggetto di un procedimento di revisione a livello comunitario, dal momento che è mutato il contesto in cui si inseriscono: dal 2000 con l’attuazione della direttiva 98/6/CE sussiste infatti un generale obbligo di indicazione, nel punto vendita, del prezzo per unità di misura (al chilogrammo o al litro) dei singoli prodotti alimentari. E’ quindi probabile che questi regimi vincolistici siano destinati a sparire.

 

Bibliografia essenziale

COSTATO, Compendio di diritto alimentare, Padova, 2002

ALBISSINI, L’origine dei prodotti agro-alimentari e la qualità territoriale, in Riv. dir. agr., 2000, I, 23

BORGHI, Biotecnologie, tutela dell’ambiente e tutela del consumatore nel quadro normativo internazionale e nel diritto comunitario, in Riv. dir. agr., 2001, I, 364

CAPELLI, I malintesi provocati dalla sentenza "Cassis de Dijon", vent’anni dopo, 1996, 673

CAPELLI, La tutela delle denominazioni dei prodotti alimentari di qualità, in Dir. com. scambi intern., 1998, 531

COSTATO, La protezione delle indicazioni geografiche e delle denominazioni d’origine e le attestazioni di specificità, in Riv. dir. agr., 1995, I, 488

COSTATO, Organismi biologicamente modificati e novel foods, in Riv. dir. agr., 1997, I, 137

COSTATO, Troppo (o troppo poco?) Cassis de Dijon, in Riv. dir. agr., 1998, II, 3

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